venerdì 18 giugno 2010

Libertà di informazione



Segnalo l'iniziativa "salva-blog" promossa da Gentiloni, Civati e Orfini del Partito democratico.

Per informazioni ulteriori si veda, ad esempio, il sito www.mobilitanti.it

"Da pochi giorni in Senato la maggioranza con la trentesima fiducia ha approvato il ddl intercettazioni: un testo che tutela meglio i criminali dei cittadini e uccide il diritto ad essere informati. Tra i commi del testo ci sono attacchi e censure anche alla Rete. Una pagina davvero brutta per la democrazia italiana, il ddl intercettazioni dopo 2 anni di gestazione si dimostra un grande esproprio della democrazia e dell'informazione, dove le notizie cattive si sommano, e ora toccano anche il controllo e la censura della Rete. Come hanno indicato i senatori del Pd Vincenzo Vita e Felice Casson tra i tanti passaggi liberticidi e censori del maxiemendamento sulle intercettazioni ce n'è anche uno devastante per la rete. Infatti, per ciò che attiene alla 'rettifica', si equiparano i siti informatici ai giornali, dando ai blogger l'obbligo di rettifica in 48 ore. Il comma 29 dell’art. 1 prevede che la disciplina in materia di obbligo di rettifica prevista nella vecchia legge sulla stampa del 1948 si applichi anche ai “i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”! I blogger all’entrata in vigore della nuova legge anti-intercettazioni, dovranno provvedere a dar corso ad ogni richiesta di rettifica ricevuta, entro 48 ore, a pena, in caso contrario, di vedersi irrogare una sanzione fino a 12.500 euro.. Ma un blog non è un giornale, il blogger non è un redattore, spesso gli aggiornamenti sono saltuari. Si può rischiare una maximulta perché magari si è in vacanza o non si controlla la posta? Ciò significa rendere la vita impossibile a migliaia di siti e di blog, ben diversi dalle testate giornalistiche. Lo fanno dimenticando che la rete è proprio un'altra cosa. L'emendamento del PD per modificare questa norma non è stato discusso perché la fiducia taglia tutto . Ma la destra abituata a usare la tv o non lo sa, o sperando nel silenzio prova a mettere le mani dove ancora non era riuscita a farlo. Non sappiamo se questo sia l’obiettivo perseguito o solo un effetto collaterale dell’ignoranza con la quale il centrodestra continua ad affrontare le dinamiche della ret e, di sicuro faranno passare ai più la voglia di occuparsi, on line, di informazione in ambiti o materie suscettibili di urtare la sensibilità di qualcuno ed indurlo a domandare - a torto o a ragione - la rettifica. Un ottimo silenziatore alle domande legittime dei frequentatori del web. Non finisce qui. I senatori PD vogliono presentare, d'intesa con i colleghi della Camera dei D eputati, un disegno di legge seccamente abrogativo della seconda parte della lettera a del comma 29 che recita per l'appunto: ''per i siti informatici sono pubblicate entro 48 ore dalla richiesta...''. Ci chiediamo se l'emendamento sarà sostenuto anche dai parlamentari di PDL e Lega che fanno parte dell'intergruppo web 2.0 e che nei convegni si esprimono sempre a difesa della libertà d'espressione in rete. Ora devono dimostrare alla rete che le loro non sono solo parole, da abolire a un cenno di Berlusconi. Chiediamo loro di firmare e votare l'emendamento PD al comma 29 per abolire l'obbligo di rettifica in 48 ore per siti e blog."

lunedì 14 giugno 2010

Dalla Liga alla Lega







Ho tra le mani il saggio di Francesco Jori, "Dalla Liga alla Lega. Storia, movimenti, protagonisti" (Marsilio, Venezia, 2009). Il fenomeno della Lega Nord ha dato vita, nel corso degli ultimi anni, ad una serie di ricerche e di contributi di vario segno che si sono posti l’obiettivo di ricostruire la “genealogia” politica e ideale di una forza che, nata come formazione anti-sistema, è diventata il partito più “vecchio” tra quelli che attualmente siedono in Parlamento, spesso rinnovandosi o reinventandosi tatticamente a seconda delle esigenze e della fase particolare vissuta, ma anche mantenendo ben salda la propria identità e scegliendo di non alterare mai troppo i tratti del proprio discorso fondamentale. Un interesse pubblicistico e scientifico che, superato un primo momento in cui si era forse più sensibili ad aspetti “folkloristici” o ad elementi contingenti, si collega non soltanto all’interpretazione dei lusinghieri risultati elettorali delle più recenti consultazioni, ma anche alla necessità di indagare il peculiare modello di partito che la Lega ha rappresentato dagli anni Novanta ad oggi, il tipo di insediamento territoriale e la sua maniera di evocare tutto un insieme di questioni diventate assai rilevanti per il dibattito pubblico nazionale, dal federalismo alla crisi della rappresentanza e delle categorie politiche tradizionali, dal governo dell’immigrazione alla riforma dello stato e della pubblica amministrazione ecc.

Il sociologo Ilvo Diamanti, nella sua prefazione, evidenzia l’originalità di questo nuovo saggio di Francesco Jori, che sembra consistere in alcuni punti specifici: anzitutto Jori guarda alla storia della Lega partendo dalla “Liga”, cioè dall’ottica di quel movimento regionalista che, in Veneto, cominciò a riscuotere i primi significativi consensi già all’alba degli anni Ottanta (in questo stesso periodo il potente leader doroteo della Democrazia cristiana, il polesano Toni Bisaglia, sarà tra i primi a cogliere il carattere di non effimera novità del fenomeno delle leghe, dichiarando tra le altre cose: “Per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto, l’ostacolo principale è nella visione centralistica che ancora prevale in Italia; centralista e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno Stato federale. Ma l’Italia non sarebbe pronta... lo Stato ne ha paura”. Nasce così l’idea di una Liga-Lega destinata a raccogliere il bacino elettorale dell’area democristiana e moderata, radicalizzando temi e posizioni di fronte all’incipiente crisi della cosiddetta “prima repubblica”). Il secondo elemento di originalità del saggio risiede nella volontà di ricordare al lettore e dimostrare conseguentemente, ribaltando un luogo comune, come il leghismo veneto sia stato storicamente tutt’altro che una diretta, indolore, posteriore filiazione di quello lombardo o qualcosa di simile ad un rilevante serbatoio di voti rimasto abbastanza periferico nelle grandi strategie politiche. Il Veneto “era e resta la regione dove la Lega è più forte, da sempre. Anche oggi”.

E soltanto ripartendo da questo dato di fondo e dal contesto veneto - terzo spunto importante fornito da Jori - si potrà seguire l’evoluzione del partito di Bossi, diventato Lega “d’ordine”, soggetto chiamato ad intercettare attraverso la sua classe dirigente (Zaia, Tosi, Gentilini ecc.) una doppia domanda proveniente dal territorio: la domanda di sicurezza, che emerge prepotentemente di fronte alla precarietà economica e sociale creata dalla globalizzazione, e quella di maggiore autogoverno locale, contro le lentezze e le inefficienze ormai sclerotizzate della burocrazia statale. Infine, lo sguardo dell’autore consentirà, come ricorda ancora Diamanti, di analizzare e comprendere più chiaramente in che misura il modello della Lega Nord, il modello di un partito radicato e visibile, di militanti e di militanza, potrà affermarsi oltre i propri tradizionali confini padani e pedemontani, presentandosi come forza di governo anche in quei territori del Nord e del Centro attualmente orfani di un partito “pesante” come il vecchio Pci e tuttavia caratterizzati da una struttura della società molto vicina a quella del mitico Nordest, della piccola e piccolissima impresa. In queste pagine, prive di verità precostituite, ma anche di pregiudizi, Francesco Jori ricostruisce con attenzione una parabola trentennale, intrecciando una cronaca di eventi e di personaggi apparentemente più minuta con una vicenda che oggi, di fatto, incrocia in modo non transitorio, né probabilmente casuale, il futuro di un intero Paese.

domenica 13 giugno 2010

Tocqueville e la liberaldemocrazia italiana








Il pensiero di Alexis de Tocqueville, "liberale di tipo nuovo" e grande teorico ottocentesco della democrazia, ha conosciuto nel corso del Novecento (il "secolo delle ideologie") periodi di fortuna, ma anche significative eclissi: una valutazione di fondo che, in qualche modo, può riguardare anche il panorama politico e culturale del nostro Paese. Sarà comunque dopo la Seconda Guerra mondiale che si assisterà ad una progressiva "riscoperta" del pensatore francese e delle sue opere maggiori, legata per buona parte alle analisi e alle profezie della Democrazia in America.
Nell'immediato dopoguerra, Tocqueville viene dunque riscoperto anche in Italia e sembra diventare il pensatore di riferimento di un'area politica, sempre limitata da un punto di vista elettorale, ma di grande influenza nella scena pubblica, quella della cosiddetta sinistra liberale che si raccoglierà intorno alla figura di Mario Pannunzio e al "Mondo", settimanale ideato e diretto dall'intellettuale lucchese dal 1949 al 1966. Sarà questo lo stesso gruppo che negli anni Cinquanta darà vita al nuovo Partito radicale e al tentativo di organizzare politicamente una "terza forza" laica e riformista tra il partito cattolico e le sinistre di ispirazione marxista.

Già nel 1943, sei anni prima della nascita del "Mondo", Mario Pannunzio scrive un saggio dal titolo rivelatore: Le passioni di Tocqueville. Non si tratta di una momentanea infatuazione intellettuale. L'Italia è ancora divisa in due dalla guerra, sfumate e incerte rimangono le prospettive politiche, ma Tocqueville è l'oggetto di una intensa riflessione, non scevra di considerazioni originali e di parallelismi con la realtà italiana del tempo (l'Italia fascista e la Francia di Napoleone III). Nella sua recente biografia pannunziana, lo storico Massimo Teodori insiste sul carattere profondamente autobiografico di questo scritto, quasi che Pannunzio nel descrivere i tratti fondamentali della personalità e dell'opera di Tocqueville cercasse anzitutto di trovare puntualmente confermate e di rispecchiare le proprie passioni intellettuali, le proprie opinioni su libertà e democrazia, addirittura il proprio atteggiamento nei confronti della politica e della vita. L'unico saggio storico-politico di Pannunzio sarebbe dunque il frutto di una lunga e solitaria meditazione, intrecciata alle riflessioni di Croce, De Ruggiero, Omodeo, Candeloro, Bryce, Sainte-Beuve, ma soprattutto un contributo che richiede al lettore più avvertito e allo storico interessato un'opera di decifrazione, una opportuna "doppia lettura", al punto che le passioni di Tocqueville identificano le passioni del giovane Pannunzio, anticipano l'enunciazione di una precisa mappa di valori (laicità, amore per la libertà "regolare e moderata", anti-totalitarismo) e un programma politico "in fieri", seppure già teso a delineare il profilo di un liberalismo democratico, europeo, radicale.
L'autore della Democrazia in America non è tuttavia esclusivo appannaggio del futuro direttore del "Mondo", ma risulta tra i costanti stimoli culturali del gruppo della sinistra liberale che confluirà nel nuovo settimanale, come ad esempio ricorda Eugenio Scalfari in quel singolare ritratto dei "liberal" italiani del dopoguerra che è racchiuso nelle pagine di La sera andavamo in via Veneto ("Montesquieu, Voltaire, Tocqueville, pur nelle grandissime differenze esistenti tra di loro, furono per noi un punto di riferimento unitario: l'indicazione della nuova sovrastruttura costituzionale, la distinzione dei poteri e anzi la teorizzazione dei contropoteri, il primo; il libertinaggio intellettuale, la dissacrazione dei tabù e la critica di ogni chiesa e di ogni setta, il secondo; la comprensione storica dei processi evolutivi e anzi la concezione della storia come processo, il terzo"). A conclusione di questa parabola, vedremo come al principio degli anni Sessanta il giovane filosofo Vittorio De Caprariis, tra le figure più autorevoli del "Mondo", scomparso nel 1964, a nemmeno quarant'anni, potrà dedicare proprio a Mario Pannunzio il suo Ritratto di Tocqueville, raccolta di saggi che contengono un'interpretazione originale del pensatore francese, una sorta di testamento spirituale e di itinerario politico-filosofico tuttora utilissimo per provare a comprendere in che modo si guardasse alla preziosa eredità tocquevilliana e, cosa per noi ancor più interessante, come si potesse cercare di trarne spunti e suggestioni per una compiuta diagnosi della realtà italiana del dopoguerra, all'alba del centro-sinistra e di nuovi equilibri.

Perché Tocqueville? Non siamo di fronte, o almeno non completamente, ad una diretta filiazione del magistero crociano, pur così determinante per le vicende complessive del "Mondo". Benedetto Croce, autentico "filosofo di bandiera" dei liberali italiani scrive pagine ammirate sul "ponderato ed equo gentiluomo" Tocqueville, ma il pensatore francese non sembra mai essere davvero al centro delle sue riflessioni, tanto meno in materia di politica. E tuttavia per molti di questi nuovi liberali e democratici Tocqueville appare come l'autore che più di altri consente di problematizzare il nesso decisivo tra libertà e uguaglianza nelle società democratiche, di prendere in esame in modo non ideologico né prevenuto pregi e difetti della democrazia nel mondo contemporaneo e, soprattutto, di dare un nuovo respiro europeo al liberalismo italiano. Si tratta di uscire dal recinto angusto di un liberalismo "di classe", di reinventare una cultura e una tradizione politica che erano state travolte dal fascismo e che ora necessitano di nuovi strumenti per poter adeguatamente interpretare il contesto repubblicano e incidere nelle sue grandi questioni. "Il Mondo" diventa ben presto il polo attrattivo e il centro propulsore di un liberalismo riformatore, di un progetto politico e culturale che sul piano pratico guarda all'esempio delle democrazie anglo-sassoni, a Beveridge e al New Deal rooseveltiano e che, distanziandosi dalle posizioni sempre più conservatrici e "di destra" del Pli, cercherà di raccogliere intorno a sé quell'Italia "dei laici" di cui parlerà Giovanni Spadolini, quella frammentata e composita galassia formata da liberali di sinistra, repubblicani, radicali, azionisti, socialisti democratici e autonomisti. Con Benedetto Croce, Gaetano Salvemini è l'altro grande riferimento morale e intellettuale del "Mondo" e delle sue battaglie politiche, anche se, come è stato giustamente notato, il settimanale non fu mai un "organo dalla marcata impronta ideologica o filosofica" e la sua cultura politica fu più concretamente esito non predefinito di un percorso di ricerca plurale e stratificato, "amalgama di successo che prendeva forma da un modo pragmatico di guardare alle realtà secondo l'ottica del liberalismo laico e riformatore". Lotta contro i monopoli e le rendite parassitarie, lotta contro l'incipiente deriva della partitocrazia, rilancio della questione meridionale come grande questione di interesse nazionale, impegno per una stagione di riforme sostanziali della pubblica amministrazione e degli apparati statali, della scuola e dell'università, dell'urbanistica e dell'attività borsistica ecc. Di formazione salveminiana è, ad esempio, Ernesto Rossi, intellettuale e protagonista dell’antifascismo che sarà tra i principali fautori della linea economica del "Mondo", nel nome di un liberalismo progressista che, se da un lato rimarrà critico feroce delle inefficienze e del burocratismo del capitalismo pubblico "all'italiana", dall'altro si distanzia dalle posizioni di un liberismo puro come quello di marca einaudiana, considerando la riforma dello stato come necessaria premessa per un rinnovato impegno della mano pubblica in alcuni settori nevralgici per la vita del Paese.

In questa medesima ottica, Tocqueville non assume soltanto il ruolo di "nume tutelare" della terza forza riformista, soprattutto della parte di estrazione liberale, ma è anche il diretto ispiratore di una nuova concezione del liberalismo, che abbandona le tentazioni e le tradizioni più conservatrici e si fa "radicale", individuando nella filosofia della libertà del pensatore francese un metodo di ricerca e un criterio opportuno per rinnovare in profondità la politica e la società. In particolare, se guardiamo alle posizioni espresse dallo stesso Pannunzio e da una figura come quella del filosofo Vittorio De Caprariis, il riferimento al pensiero di Tocqueville sembra essere un punto di snodo per arrivare a definire i contorni di un riformismo liberale possibile, di una strategia politica e culturale modernizzatrice elaborata nel nome di un compiuto modello di democrazia liberale, stabilmente agganciato all’Occidente. Vittorio De Caprariis, nato nel 1924, ebbe come maestri Adolfo Omodeo e Benedetto Croce e accompagnò la sua attività di giovane e brillante docente universitario, a Napoli e Messina, con un impegno culturale che non fu mai disgiunto da una genuina vocazione politica, espressa nella partecipazione all'avventura del "Mondo" e nella fondazione della rivista meridionalista "Nord e Sud". Del 1961 è il suo Ritratto di Tocqueville, che comparirà per la prima volta in volume nel '63. Testo emblematico, come si è accennato in precedenza, anche perché in questa ricerca la lucida meditazione sull'autore della Democrazia in America si intreccia più o meno apertamente ad una linea di riflessione che non perde mai completamente di vista i problemi italiani. Partendo da quella che De Caprariis evidenzia come l'intuizione tocquevilliana fondamentale: nel mondo moderno la libertà può sopravvivere "come fatto politico" soltanto incarnandosi nelle forme della democrazia. Rispetto ad altri celebrati autori della famiglia liberale, Tocqueville suggerisce che la democrazia è anzitutto un problema di educazione al "gusto per la libertà", è un problema di cultura, di costumi, di carattere nazionale, di vitalità politica, prima ancora di identificare un sistema di regole e procedure giuridiche, un quadro esatto di pesi e contrappesi istituzionali. Solo la libertà politica e civile può assicurare il raggiungimento del benessere materiale ai cittadini delle democrazie e solo una ricca articolazione pluralistica di associazioni, di corpi intermedi, di "autonomie" ad ogni livello può consentire il pieno dispiegamento di questa libertà, nonché dei diritti che essa naturalmente promuove e garantisce. Pluralismo associativo che educa alla libertà e che previene alcuni dei rischi mortali per la società moderna: l'accentramento politico e amministrativo, la degenerazione dispotica, quella strana commistione di pulsioni autoritarie e rassegnazione civica che può albergare nel cuore stesso della democrazia e tornare a manifestarsi sottilmente ma anche con virulenza, magari come "tirannia della maggioranza" favorita dal declino progressivo dello spirito associazionistico tra i cittadini. Il Tocqueville che esalta la partecipazione civica degli americani e rifiuta di identificare liberalismo e individualismo, lo ricorda ancora De Caprariis nel suo Ritratto, compie un'altra scoperta originale e importante: una scoperta che contravviene ad una lunga tradizione di filosofia politica occidentale nemica del "mutamento" (tra le poche eccezioni: Machiavelli) e secondo cui la mobilità sociale è piuttosto da assumere come un fattore decisivo per il buon funzionamento dei sistemi democratici. La mobilità incessante delle società democratiche è "una spinta possente verso il progresso materiale e intellettuale, una spinta che imprime a tutto il corpo sociale un'attività che nessun altro regime potrebbe creare. (...) Questo tipo di instabilità, rispettando i principi generatori della società, si traduce in impeto creatore, energia operativa, genera, finalmente, gli anticorpi capaci di annullare o attenuare i pericoli che corre la società tutta intera". Questa sottolineatura di De Caprariis, riportata all'analisi delle democrazie contemporanee, e con ogni probabilità anche al particolare caso italiano, implica come diretta conseguenza la necessità, per un liberalismo che si qualifichi come "moderno" e "progressista", di pensarsi come una filosofia politica strettamente connessa ad un coerente ed organico disegno di riforme, in grado di tradurre sul piano politico e istituzionale quel moto permanente che anima le società democratiche e ne costituisce una delle cause generatrici, prevenendo involuzioni del sistema e deviazioni estremistiche. Non è certamente un caso che De Caprariis dedichi un significativo passaggio del suo Ritratto proprio al Tocqueville che, negli anni Quaranta del XIX secolo, affidava il progetto politico liberale e riformatore al giornale "Le Commerce", intendendo raccogliere intorno a tale iniziativa gli uomini e le idee per poter realizzare finalmente una "terza forza", l'embrione di un nuovo partito alternativo alle forze egemoni di destra e di sinistra. Anche per la Francia di metà Ottocento, la "salvezza poteva venire solo da un terzo partito, che fosse capace di 'usare in altro modo le istituzioni' e di compiere quel certo numero di riforme che garantissero una graduale attuazione del regime democratico".

Bibliografia di riferimento

Giuseppe Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2002

Vittorio De Caprariis, Ritratto di Tocqueville, Guida, Napoli, 1996

Antonio Jannazzo, Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2003

Massimo Teodori, Pannunzio. Dal “Mondo” al Partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento, Mondadori, Milano, 2010

Massimo Teodori, Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista, Marsilio, Venezia, 2008

lunedì 7 giugno 2010

Un'idea di solidarietà








"I copi"

"I copi i se tien quasi par man
come fradei, i se pasa l'acqua
i se spartisse el sol e le nuvoe
e le nevegade che le pesa guaive
Semo manco de lori, copi sbaliadi
che no se liga, i se urta e rompe
senza rason, sora 'na casa indove
un sta in pase e l'altro in guera".

(Romano Pascutto, 1971)


Mi piacciono questi versi di Romano Pascutto. Come non sentirci anche noi, spesso, "copi sbaliadi", sbagliati, atomi che si urtano senza riuscire a legare? Di lui ha scritto Andrea Zanzotto: “Non c'è dubbio che a Romano Pascutto va riconosciuto un vero e proprio magistero nel campo della poesia dialettale di questo dopoguerra... Se è vero che ogni poeta dialettale è colui che salva l'anima più profonda, Romano Pascutto che ha dimostrato di saper mobilitare tutte le risorse della lingua della sua terra, quella di S. Stino e della bassa Livenza, e darne un vastissimo affresco costituito di piccoli, densi quadri, ha assolto pienamente a questo compito”. E, ancora, prosegue il poeta di Pieve di Soligo, nel delineare questo efficace ritratto: “Nell’espressione di Pascutto c’è una durezza, una spietatezza che tarpa le ali ad ogni retorica, e vi è il senso del cupo enigma del mondo le cui antinomie sembrano insuperabili. Vi è infine l'incoercibile fiorire della lingua, nella sua individualità che è insieme verbo e terra...”. Poche, suggestive righe che compendiano esemplarmente una figura come quella di Pascutto, poeta in lingua e dialettale, romanziere e autore teatrale, ma anche partigiano e amministratore, uomo pubblico e cantore “a tutto tondo” della propria terra.

Nato a S. Stino di Livenza, Romano Pascutto (1909-1982) è figlio di poveri artigiani. Ha soltanto otto anni quando la disfatta di Caporetto obbliga migliaia di veneti e friulani all’esodo dalle proprie case: Romano frequenterà i primi due anni delle scuole elementari a Firenze. Poi con la famiglia sarà a Pordenone, dove poco più tardi si iscriverà all’Istituto Tecnico e, nel Circolo culturale cattolico di Torre diretto da Don Giuseppe Lozer, incontrerà il pittore Armando Pizzinato, con cui stringerà un solido vincolo amicale. Sono comunque anni difficili: Pascutto, fieramente antifascista, osteggiato per le sue posizioni politiche, sceglie di raggiungere il fratello Sante in Libia, trovando occupazione presso una compagnia di navigazione. Durante la guerra, rientra a San Stino con moglie e figlia, conosce la Resistenza tra le fila dei garibaldini, passando anche un duro periodo nelle carceri di Portogruaro. Nel 1946 inizia la propria militanza nel Partito Comunista Italiano (avrà incarichi in ambito provinciale e sarà consigliere comunale, assessore e infine sindaco a San Stino di Livenza tra il 1975 e il 1980) e nei mesi seguenti, dopo essere stato reintegrato come funzionario della Società di navigazione “Tirrenia”, potrà finalmente ritrovare a Venezia vecchi amici e compagni, tra cui Pizzinato.

E' sempre dopo la Liberazione che Pascutto iniziò a pubblicare volumi di poesia in dialetto e in lingua (le poesie sono oggi raccolte nel primo dei quattro volumi dell’opera omnia, "L’acqua, la piera, la tera", del 1990, a cura di Antonio Daniele ed edito, come gli altri, da Marsilio) e, successivamente, diede alle stampe una serie di libri che riscossero i primi consensi della critica, aprendo finalmente la sua opera alla notorietà e ad importanti accostamenti, come quelli con Giacomo Noventa e Biagio Marin, quasi a voler comporre una sorta di ideale triade della nostra tradizione poetica. Vengono così pubblicati scritti teatrali, romanzi e racconti di notevole efficacia narrativa, in particolare si segnalano i romanzi "La lodola mattiniera" (Padova 1977) e "Il Viaggio" (Padova 1979), saga familiare degli anni del fascismo, e il volume di racconti, ispirati dall’esperienza vissuta da Pascutto come giudice popolare, "Il pretore delle baracche" (Milano 1973). Al primo volume dell’opera omnia, già citato, fanno seguito nel 1996, a cura di Saveria Chemotti, i romanzi e racconti, con un significativo apparato critico e un’ampia nota biografica della curatrice. Nel 2003, sempre a cura di Antonio Daniele, si è invece proceduto alla pubblicazione del volume “Nostro tempo contato” e di altre poesie edite e inedite. Il lavoro di recupero dei manoscritti pascuttiani prevede infine un quarto tomo, dedicato ai numerosi testi teatrali dello scrittore, "giacimento" letterario in buona parte inesplorato: una nuova uscita che dovrebbe concretizzarsi per il centenario della nascita di Pascutto.

martedì 1 giugno 2010

See you in Venice





Qualche giorno fa mia sorella passeggiava per Venezia e ha catturato questo formidabile esempio di arte situazionista post-elettorale.

lunedì 31 maggio 2010

Fenomenologia del giovane democratico








Come contributo al dibattito sulla "questione generazionale" nel Partito democratico, che consuma settimanalmente le pagine di quotidiani, periodici e rotocalchi, presentiamo questa breve galleria di tipi ideali da noi elaborata. (Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti ecc. ecc.).

Aggiungiamo soltanto che questa variegata ma incompleta tipologia compendia alcune singolari categorie dello spirito che, calate nella realtà, possono conoscere un numero pressoché illimitato di possibili incroci e combinazioni.

Il predestinato.
Vive e prospera nella manovra di corridoio. Nulla del suo aspetto lasciare trasparire il suo ruolo di “predestinato”: non l’eloquio, non il carisma né lo spessore intellettuale, eppure alla sua età ha già accumulato una serie impressionante di incarichi, saltando con innato tempismo e dorotea disinvoltura da uno scranno all’altro. Raramente si espone in pubblico, se non per lanciare declamazioni assolutamente generiche e messaggi apparentemente pacificatori. Dispone tuttavia di una piccola corte: perché il predestinato è il predestinato. Lettura preferita: "Tra De Gasperi e gli U2" di Matteo Renzi.

L’intellettuale triste.
Era partito per cambiare il mondo, ma ora, le tempie precocemente ingrigite, si ritrova a disquisire sulla imprescindibile opportunità rappresentata per il territorio dal fotovoltaico a Ca’ Cappellino. E’ l’ultimo oscuro erede del filone nazionale “crocio-gramsciano”. Cita volentieri Obama, ma da come parla in pubblico si capisce che un po’ di nostalgia per il partito come grande “pedagogo” delle masse la coltiva e legge, ormai in segreto, aggredito dai sensi di colpa, libri di Zizek e il “Manifesto”. Lettura preferita: "Storia d'Europa nel secolo XIX" di Benedetto Croce.

Il pollo di batteria.
Conosce il partito in tutte le sue minime articolazioni correntizie, manda a memoria i nomi di compagnie, brigate, sodalizi. Nuota a suo agio fin da adolescente nelle più astruse dispute congressuali e impara da pochi vaghi segni, come un aruspice, a capire in quale direzione tirerà il vento. Si orienta di conseguenza. Tappa dopo tappa, tassello dopo tassello, salirà rapidamente l’intera gerarchia evolutiva delle organizzazioni giovanili di partito e, poi, entrato nel mondo “adulto”, quello stesso partito che lo ha accudito come una chioccia faticherà ad imporlo come vice-sindaco in qualche giunta comunale, dove riceverà le deleghe alla pace imperitura e all’associazionismo pensionistico-sportivo. Lettura preferita: "Noi" di Walter Veltroni.

Il “ggiovane”.
In questo caso l’abito può fare il monaco: il giovane con due “g” si riconosce spesso dal look democratico-trasandato e dalla facilità di parola, erede puntuale delle ondate assembleari post-sessantottine e delle relative orge retorico-verbali. Ogni suo studiato intervento si apre e si conclude nel segno di un sempre auspicato rinnovamento del partito, che viene presentato come una necessaria palingenesi, a metà tra l’Apocalisse di Giovanni e il film “Il Gladiatore”. Si presenta come un movimentista, si dice stretto nelle liturgie di partito, pronto ad incarnare il cambiamento, ma potrebbe essere pericoloso sottovalutare la sua abilità nel far magicamente fruttare in sede politica, al momento opportuno, quote e rendite prettamente “generazionali”. Lettura preferita: Dylan Dog e Topolino.

Segue...

venerdì 21 maggio 2010

La nuova Europa













Ecco la nuova cartina dell'Europa secondo l'autorevole "Economist". L'Italia (ri)divisa in due, con il "mare nostrum" nel mezzo, e il poco lusinghiero nome di "Bordello" assegnato al nuovo Regno delle Due Sicilie.

C'è da dire che questi spiritosi inglesi, a quanto pare non sospettabili di simpatie leghiste, hanno provveduto anche a (ri)collocare il Regno Unito dalle parti delle isole Canarie, a ridosso di quella pittoresca ma traballante Europa mediterranea che sembra antropologicamente inadatta a sostenere i rigori del mercato unico.