mercoledì 27 gennaio 2010

I leader iraniani e la Giornata della memoria



Le incredibili, vergognose dichiarazioni dei leader iraniani su Israele e sulla Shoah mi spingono ad intervenire sul significato che dovremmo attribuire alla Giornata della memoria con alcune riflessioni.

Il nostro errore più grande sarebbe, infatti, quello di consegnare oggi questa memoria ad un passato ormai quasi arcaico, irriconoscibile, estraneo, senza continuare a vigilare e senza nemmeno interrogarci su quelle endemiche condizioni di fragilità e di precarietà dei nostri sistemi sociali e politici che portarono alla Shoah e alla guerra di sterminio e che, nonostante un presente democratico e apparentemente riconciliato del mondo che chiamiamo civile, rimangono sedimentate nella stessa essenza delle società contemporanee.

Il grande sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, nel suo saggio “Modernità e Olocausto”, ha dimostrato come i tragici eventi legati alla barbarie nazista e al genocidio degli ebrei non siano qualcosa che appartiene ad una momentanea regressione ferina di una parte dell’umanità occidentale, né il prodotto impazzito di una cultura irrazionalistica che ha permeato il continente europeo tra Otto e Novecento, fornendo un ampio substrato all’emergere del fanatismo ideologico e dei totalitarismi.

La soluzione finale poté essere concepita dai nazisti all’interno di una “moderna” società di massa, una società amministrata da “moderni” apparati burocratici e segnata dai successi della “moderna” scienza e delle sue “moderne” tecniche. La razionalità burocratica, questo agire sganciato dall’etica, dalla religione, dalla filosofia, orientato unicamente allo scopo, all’efficienza e alla riduzione dei costi, ha contribuito in maniera determinante a trasformare un delirio ideologico in uno sterminio rigorosamente pianificato.

Scrive Zygmunt Bauman: “Il terrore inespresso che permea il nostro ricordo dell’Olocausto (collegato, e non a caso, al pressante desiderio di non trovarsi faccia a faccia con tale ricordo) è dovuto al tormentoso sospetto che l’Olocausto potrebbe essere più di un’aberrazione, più di una deviazione da un sentiero di progresso altrimenti diritto, più di un’escrescenza cancerosa sul corpo altrimenti sano della società civilizzata; il sospetto, in breve, che l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze; e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo. Ciò che forse temiamo maggiormente è che ciascuna delle due non possa esistere senza l’altra, come accade per le due facce di una moneta”.

Ancora oggi c’è bisogno di tornare a nominare l’innominabile, c’è bisogno di ricordare ciò che è accaduto non per un omaggio formale o per adempiere ad un rito tra i tanti che scandiscono la nostra vita collettiva, ma perché senza memoria non esiste identità, non esiste possibilità di condivisione né speranza di futuro. La memoria della Shoah e della sua unicità diventa la premessa indispensabile per poter pensare ad una effettiva “civilizzazione” della nostra epoca.

venerdì 8 gennaio 2010

Le avventure della dialettica



Una lettura ancora preziosa: "Le avventure della dialettica" di Maurice Merleau-Ponty (ed. Mimesis).
Ristampato dopo molti anni.
Siamo negli anni Cinquanta, è la rottura di un sodalizio intellettuale. Merleau-Ponty critica duramente Sartre "ultrabolscevico" e abbandona il marxismo in nome di una sinistra "non comunista". Di lì a qualche mese, i fatti di Ungheria. Profetico.


DALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO: "Le avventure della dialettica è stato definito il “libro maledetto” di Merleau-Ponty. Nulla di strano: si sa che chi precorre i tempi deve attenderne l’arrivo in condizioni scomode, come si sa che i libri maledetti sono spesso precursori. È senz’altro il caso di questo, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1955, i cui approdi – dichiarando finita la credibilità dell’ideologia comunista senza dover neppure attendere, diciotto mesi dopo, la rivolta d’Ungheria e la sua sanguinosa repressione da parte sovietica – anticipavano di trentaquattro anni la caduta del muro di Berlino.
Ma attenzione: Le avventure della dialettica non si limita a precorrere ciò. Più ancora, esso cerca d’impostare i problemi che si sarebbero aperti proprio con la caduta del muro di Berlino, ovvero quei problemi che la fine della credibilità dell’ideologia comunista non cessa di porre a chi, in tale fine, non si convince a leggere la confessione storica dell’insuperabile bontà del sistema capitalistico. Infatti, crollato oggi il castello di tali trionfalistici annunci, ecco tornare l’esigenza di quell’interrogazione filosofica della storia e di quell’interrogazione storica della filosofia che Merleau-Ponty magistralmente pratica nelle Avventure della dialettica. Perciò la riflessione sull’epoca presente può trovare qui il dono di un pensiero per lei sorprendentemente prezioso".

domenica 3 gennaio 2010

Craxi, dieci anni dopo




Il decennale della morte di Craxi dovrebbe fornire l'occasione per tornare a riflettere su questa esperienza politica “sine ira ac studio”, senza dover ricorrere necessariamente ad un concetto di per sé ambiguo come quello di “riabilitazione”, né ricadere in letture semplicistiche e unilaterali.

Dovrebbe, dico, tenendo conto anche della difficoltà che il Pd e il campo riformista incontrano nel tentativo di ridefinire la propria identità. Il crollo del muro di Berlino, oltre a dissolvere quel che rimaneva del comunismo sovietico, ha messo in crisi il modello socialdemocratico e l'idea stessa di un riformismo socialdemocratico: una crisi profonda, che si è acuita con il passare degli anni e che si è malamente cercato di occultare dietro il preteso pragmatismo dei tanti governi a guida laburista, socialdemocratica o genericamente progressista presenti in Europa a partire dagli anni Novanta. Si è governato, anche a lungo, evitando che le parole “riformismo” e “socialismo” riassumessero un qualche significato riconoscibile e traducibile nella realtà concreta, oltre che nella prospettiva a medio-lungo termine di queste famiglie politiche. Oggi qualsiasi vago impulso modernizzatore ed efficientista sembra potersi ammantare di “riformismo”, da destra a sinistra, senza che ci si interroghi più sull'orizzonte ultimo e sulle finalità complessive che dovrebbero orientare questi stessi impulsi.

La questione di fondo è politica e, insieme, culturale. In questa ottica, il caso italiano può acquistare un rilievo emblematico, cui si sommano naturalmente fattori nazionali specifici (Tangentopoli, la fine dei vecchi partiti, l'avvento di Berlusconi e della Lega ecc.). In Italia, dal 1989 in avanti, il campo della “sinistra” – pur non riuscendo ad ampliare significativamente i propri consensi nella società e nel Paese, anzi, spesso regredendo dalle proprie posizioni – è risultato abbastanza esteso da poter comprendere al proprio interno i tentativi di rifondare il comunismo e gli approdi liberal-democratici, le nostalgie socialiste e le velleità uliviste, le pulsioni libertarie e quelle giacobine. L’ipersensibilità dimostrata nei confronti di Berlusconi, del personaggio Berlusconi oltre che della sua politica, rimane uno dei sintomi più eloquenti di questa fragilità strutturale, anche dopo la nascita del Pd.

La prospettiva riformista del nuovo partito sembra così essersi fondata su una doppia e speculare rimozione: quella di Craxi e quella di Berlinguer. Icone di un passato illustre o figure scomode, si tratta di esperienze che sono state tenute a distanza, non rielaborate seriamente né colte nella loro essenziale verità da chi dovrebbe osare coglierne la lezione. Tutt'al più le si è sbrigativamente definite come le “due facce di una stessa sconfitta”: una liquidazione frettolosa e quindi sospetta.
L'eredità politica di Berlinguer (moralità, austerità, la politica dei “pensieri lunghi” ecc.) non può rispecchiarsi nel minoritarismo e nel moralismo di certi settori del centrosinistra attuale, che individuano nella purezza della retorica anti-berlusconiana il parametro unico di ogni plausibile alternativa al governo.

Analogamente, l'eredità di Craxi (riformismo laico, spinta modernizzatrice, “decisionismo” ecc.) non può essere regalata al centrodestra di Brunetta e Sacconi, né essere interamente assorbita dalle vicende giudiziarie. Il Craxi di Sigonella, applaudito a suo tempo dal Pci, o quello del referendum sulla scala mobile, possono insegnarci ancora oggi che una azione politica coerentemente riformista non vive di astratte pianificazioni, né di visioni escatologiche della realtà o di sterili enunciazioni moralistiche, ma si basa su scelte forti, sul riconoscimento di passaggi simbolici e talvolta anche sull'abbattimento di tabù appartenenti alla propria cultura. Richiede pensiero, ma anche coraggio.

Il paradosso di entrambe queste rimozioni è che, all'interno di un vorticoso “rinnovamento” di nomi, sigle, programmi, leader, come quello conosciuto dalla sinistra negli ultimi anni, e in assenza di un serio ripensamento del passato recente, prevalgano le spinte più conformiste e conservative. La riflessione oggi s'impone anche per i riformisti polesani.

giovedì 30 aprile 2009

Assolutismo (poco) illuminato



Dagli acuti editoriali di Ilvo Diamanti sulla crescente “velinizzazione” della politica italiana, ai commenti di una Lidia Ravera o di una Lina Sotis, agli inviti poco concilianti di elettori e militanti del Pdl, l’ultima sortita della moglie del premier occupa la scena mediatica di queste ore, come novello psicodramma nazionale. C'è addirittura qualcuno che, scherzosamente, ma a volte non troppo, continua a proporre la (quasi ex?) "first lady" Veronica Lario/Miriam Bartolini come salda guida per i luminosi destini del Partito Democratico (“è il nostro Obama”, si è detto: del resto, non sono poi tanto lontani i giorni in cui si sprecavano gli apprezzamenti di Veltroni nei confronti della Lario).

Sì, proprio lei che nella sua ultima disperata missiva affidata alla nostra stampa, e fremente di democratica indignazione, ha affermato nientemeno che di voler “lottare” strenuamente per i propri figli, per assicurare loro un futuro degno di questo nome. Poveretti, verrebbe da dire, sono soltanto i figli di Silvio Berlusconi, che strada potranno mai prendere in un paese avaro come l'Italia?

In ogni caso, eccoci di fronte ad un esempio di assolutismo (poco) illuminato. La storia, comunque, insegna che per i rami cadetti della “famiglia” può sempre esserci qualche sinecura, qualche feudo inesplorato, qualche trono vacante, qualche piccolo principato a cui evidentemente non si era pensato: è sufficiente srotolare la carta geografica dell’Italia, o dell’Europa, e vedere quello che offre, per comporre gli interessi dinastici e tranquilizzare il popolo italiano. Per tutti gli altri, dopo la “privatizzazione” del politico, bisognerà fare direttamente i conti con la politica privatizzata.

giovedì 23 aprile 2009

Il passante




Valter Vanni ha scritto "Un passante per il Nordest. Una storia lunga cinquant’anni" (ed. Marsilio). Vanni, oltre ad aver ricoperto un ruolo di primo piano nella sinistra veneta, non ha rinunciato anche a ritagliarsi una più defilata posizione di “coscienza critica” rispetto alla sua stessa area politica e culturale, soffermandosi in più occasioni sui limiti storici dell’azione della sinistra nel Veneto “bianco” nonché sulle trasformazioni seguite alla “svolta” del dopo 1989.

Questo libro prende in esame la lunga, complicata gestazione del “passante” di Mestre, che diventa nell’analisi di Vanni una significativa parabola o, meglio, una lente attraverso la quale poter rileggere la politica veneta dal dopoguerra (il “problema” nasce nel 1958!) ad oggi e la funzione avuta dalle classi dirigenti che si sono succedute in questo lasso di tempo. Il saggio comincia con una serie di interessanti domande, che vengono poste direttamente al lettore: perché – ad esempio – in una zona pianeggiante una strada di meno di sette chilometri è diventata un ostacolo talmente rilevante da meritare l’appellativo di “valico”? Perché questo stesso “valico” nel corso degli anni è stato identificato con il simbolo della crisi di un intero assetto politico-istituzionale? E perché oggi può venire interpretato anche come sostanziale indicatore delle capacità di governo di un territorio?

Non si è trattato, evidentemente, di una vicenda semplicemente burocratica o della necessità di dover gestire una contrapposizione tra progetti, tracciati, “suggestioni” di tipo differente (trasporto su “ferro” o “gomma”?), ma su un piano comunque tecnico: a confrontarsi sono state, spesso, visioni del governo e dello sviluppo, visioni anche ideologiche che hanno condizionato la storia di una infrastruttura definita da più parti come strategica, e che pure ha dovuto fare i conti con il perdurare di “dispute localistiche” e con una aspra contesa politica. L’autore si attiene fedelmente alla cronaca, segue le evoluzioni della politica e della vita istituzionale, sottolinea i passaggi salienti dell’intera vicenda, mettendo in luce gli errori, le contraddizioni, ma anche le scelte positive compiute dai protagonisti.

giovedì 9 aprile 2009

Anni Settanta 2



Alessandro Naccarato, deputato padovano del Pd, ha scritto "Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a Padova" (ed. Cleup). Sembrano tempi lontani, tempi irrimediabilmente consegnati ad una memoria sempre più lacunosa, sbiadita, sorpassata dagli eventi: eppure, i fatti rievocati con rigore da questo libro di Alessandro Naccarato risalgono ad una trentina di anni fa e, se così si può dire, la loro “ombra” continua a proiettarsi, almeno indirettamente, sul nostro presente e su qualsiasi possibilità di attendibile ricostruzione dei nostri “anni di piombo”.

La strategia della violenza sistematica, l’attacco alle istituzioni, lo sviluppo di una sorta di “illegalità di massa” con la garanzia dell’impunità e vari livelli di azione, il terrorismo “diffuso” – fino ai gravissimi attentati compiuti, ad esempio, contro docenti dell’ateneo patavino come Angelo Ventura e Guido Petter. Questo libro si serve delle sentenze (definitive) contro Potere Operaio, Autonomia Operaia Organizzata e Collettivi Politici Veneti per ricreare "dall'interno" il clima di un’epoca recente e altamente drammatica nella storia dell’Italia repubblicana e per raccontare in che modo una città come Padova, nel cuore del Veneto bianco, potè gradualmente diventare centro di una strategia rivoluzionaria. Questi alcuni dei dati che vengono citati: “Per molti anni, e con particolare intensità tra il 1972 e il 1980, queste bande resero Padova la città italiana più colpita dal terrorismo per numero di attentati in proporzione agli abitanti. Soltanto tra il 1977 e il 1979, il periodo più tragico, a Padova furono denunciati – e si tenga conto che molti reati non venivano segnalati alle autorità competenti – 708 atti di violenza eversiva: 447 attentati, 132 aggressioni a persone, 129 tra rapine e devastazioni”.

Padova sarà tuttavia anche il luogo in cui scatterà l'inchiesta Calogero (7 aprile 1979), che portò all'arresto di Toni Negri. Naccarato nella sua analisi mette in rilievo come la città patavina seppe sviluppare nonostante tutto una reazione attiva, in cui si fondevano denuncia, contrasto e prevenzione della violenza: in tale reazione ruolo decisivo ebbero naturalmente le forze dell’ordine, la magistratura, ma anche tanti cittadini comuni, militanti politici e sindacali, rappresentanti del mondo istituzionale, docenti. Ripercorrere questa storia attraverso la vicenda giudiziaria fin qui emersa significa, per l’autore, andare controcorrente rispetto ad una ricostruzione del periodo che, in buona parte, è tuttora basata su memorie e racconti – di forte impatto mediatico, aggiungiamo noi – dei membri "più in vista" delle stesse organizzazioni extraparlamentari. Storia e “giustizia”: questione quanto mai attuale, nelle riflessioni della storiografia contemporanea (che cosa distingue gli storici dai giudici? Si veda, ad esempio, l’opera di Carlo Ginzburg), e che affiora come nodo problematico anche in questa sede. L'altra sera, nel trentennale di quel 7 aprile, Toni Negri ha parlato a Padova... esponendo la sua "versione"... (Probabilmente ne riparleremo).

mercoledì 8 aprile 2009

Anni Settanta



Montanelli, anarchico borghese: figura irriducibile a qualsiasi altra, questo si sa. Di secondo nome faceva “Schizogene”, ovvero generatore di polemiche, generatore di contrasti. Nomen…

Quello che si legge in queste (scorrevoli) pagine di Liucci e Gerbi è anche il ritratto di un Montanelli che, negli anni Settanta, dopo il divorzio dal "Corriere della sera", dalle colonne del suo “Giornale nuovo” si fa di volta in volta “politico”, “pedagogo”, “levatrice” di una destra liberale come, in verità, non se ne sono poi viste.

Per gli autori di questa seconda parte della sua biografia egli è il vero inventore del “giornale-partito”, formula-etichetta che, sul versante progressista, sarà affibbiata con maggior fortuna qualche anno più tardi alla “Repubblica” di Scalfari: Scalfari-Montanelli... è allora proprio questa, prima delle "discese in campo" e delle "gioiose macchine da guerra" del '94, la curiosa genealogia, nonché la più genuina radice dell'italico bipolarismo?