venerdì 12 marzo 2010

Sulla 'piccola' editoria



Questa è la prima parte di un intervento che ho tenuto lo scorso 2 marzo, a Roma, presso la sede capitolina della Regione del Veneto, in occasione della presentazione del catalogo del premio Oderzo di architettura.

"Parlare di editoria, in Italia, significa fare i conti con un panorama vivace, diversificato e in costante evoluzione. Una miriade di case editrici, grandi e piccole. Tre miliardi e mezzo di euro di giro d’affari, 59.000 nuovi titoli all’anno, secondo l’ultimo “Rapporto sullo stato dell’editoria” dell’AIE. Parlare di editoria significa, soprattutto, confrontarsi con statistiche e con esperienze di vario tipo e con un futuro che è ancora, in larga parte, nonostante tutto, da definire e da costruire.

Se un primo dato rilevante caratterizza l’editoria universitaria, o l’editoria che chiamiamo “di cultura”, questo dato è senz’altro individuabile nel pluralismo, cioè nella presenza di un numero consistente di piccole e medie case editrici fortemente specializzate, altamente flessibili e radicate sul territorio.

Una quota assolutamente non disprezzabile, specialmente nel Centro-Nord, è costituita da editori indipendenti, vale a dire da imprese estranee ai grandi gruppi editoriali. Potremmo parlare, a tale proposito, di un relativo policentrismo dell’editoria universitaria, riflesso di un più ampio e tradizionale policentrismo culturale del nostro Paese, che si evidenzia anche nella storia dell’editoria.

Un panorama di risorse comuni, ma anche di problemi comuni, di nodi irrisolti, di scelte complicate che non possono essere eluse e neppure dilazionate, com’è facile intuire: la crescente concorrenza delle grandi case editrici, l’assorbimento di marchi editoriali “storici” entro più grandi concentrazioni, i rischi e gli ostacoli della distribuzione, le stesse difficoltà del sistema universitario italiano, l’impatto delle nuove tecnologie e le opportunità del web ecc. Di questi giorni, per esempio, è la notizia che l’ateneo di Harvard ha iniziato a pubblicare i propri testi attraverso il social network Scribd, uno dei tanti luoghi su Internet creati per l’aggregazione e per la condivisione di documenti di ogni genere e natura.

Si tratta di questioni aperte, che non penalizzano necessariamente l’editoria di cultura e tuttavia fanno comprendere agli osservatori più attenti come non sempre, anche in un mercato sui generis come questo, valga lo slogan “piccolo è bello”.

D’altra parte, è pur vero che l’industria culturale, e l’editoria “cartacea” in particolar modo, non possono rinunciare ad elementi come qualità, originalità, creatività, capacità di elaborazione, vicinanza e cura per il lavoro che si svolge. Le università e, più in generale, i centri di ricerca e di cultura, pubblici e privati, hanno bisogno non soltanto di contenere i propri costi, ma anche di poter condividere un metodo, una “strada”, un progetto culturale, di poter confrontare idee e posizioni. Per questi motivi, l’editoria di qualità, l’editoria di cultura potrà avere un proprio riconoscibile spazio anche in futuro.

Ma che cosa significa, più nel dettaglio, editoria di qualità, e che tipo di relazione instaura questo mondo con quello dell’architettura (universitaria e non)?

Bisognerebbe avere il tempo per evidenziare e illustrare casi specifici, ma ci limiteremo per il momento a delineare qualche linea di tendenza e a mettere in rilievo qualche punto essenziale.

Innanzitutto, questo tipo di editoria, come abbiamo accennato in precedenza, è spesso in grado di coniugare il proprio radicamento territoriale (che non vuol dire soltanto vicinanza geografica all’accademia, ma anche precisa vocazione culturale e pieno inserimento all’interno di un determinato sistema di reti e di relazioni) con alti livelli di competenza e di professionalità.

Le case editrici che si occupano di architettura, soprattutto quelle piccole e medie, le realtà decentrate rispetto alle “grandi metropoli”, uniscono molto spesso ad un alto grado di competitività una visione aperta all’innovazione e alla qualità, una solida preparazione editoriale e culturale, una certa capacità di “osare” e di sperimentare. Abbiamo a che fare, insomma, con una vera e propria editoria di progetto, che per essere competitiva e per poter presidiare nicchie pregiate di mercato è “costretta” a lavorare sulla qualità.

Questi editori possono essere imprese locali, ma quasi mai localistiche, quasi mai cioè rinchiuse nel proprio “particulare”, ancorate ad un rapporto esclusivo con la propria città o con il proprio ateneo di riferimento: questo dettaglio non secondario, probabilmente, distingue la realtà concreta dell’editoria da altri settori della nostra economia che si regge sul contributo della PMI (anche di quella economia che oggi definiamo “simbolica” e “immateriale”).

Le case editrici che si occupano di architettura sono “antenne”, sono sensori presenti sul territorio, realtà che collaborano attivamente con le università e i principali centri di ricerca, condividendone il contesto e le problematiche, ma che riescono anche ad intercettare il mondo che “sta fuori” e a dialogare con le aziende e con le istituzioni pubbliche, con i professionisti che lavorano in loco, riescono a valorizzarne le esperienze più significative, a creare occasioni editoriali – cataloghi, monografie, collane ecc. – che veicolano quanto viene quotidianamente ideato, progettato, realizzato sul territorio".

CONTINUA...

mercoledì 10 marzo 2010

Il Polesine e la crisi



Nella relazione presentata all’ultimo congresso provinciale della Cgil e posta in evidenza dalla stampa locale, il segretario Giovanni Nalin ha rimarcato almeno un paio di verità elementari per l’odierna realtà polesana: 1. Di fronte alla crisi (ad una crisi il cui impatto è ancora ben lungi dall’essere assorbito, stando ai più recenti dati dell’economia) non possiamo limitarci a sperare nella panacea che sarebbe offerta dalla riconversione della Centrale Enel di Polesine Camerini. 2. Sembra altrettanto rischioso confidare nel fatto che la ripresa economica e le prospettive di sviluppo del nostro territorio possano dipendere esclusivamente o quasi dall’iniziativa della “mano pubblica”. Personalmente aggiungerei, come corollario, una terza sintetica riflessione, che può assumere un proprio senso anche in relazione a questi giorni di campagna elettorale per la Regione, in cui il Pd ha coraggiosamente speso un “uomo di frontiera” come Bortolussi, storico leader degli artigiani di Mestre.

La riflessione è questa: è impensabile uscire dalla crisi e tornare a crescere, specialmente per un territorio come quello polesano, troppo spesso schiacciato dalle priorità e dagli interessi di aree più forti, se non viene affermata la centralità del “capitale umano”. Ciò significa credere che l’investimento più vantaggioso che si possa fare è quello che riguarda istruzione e formazione. Significa rafforzare con convinzione il ruolo dell’Università nella nostra provincia, ma anche quello (strategico) della rete scolastica e formativa diffusa sul territorio. Fare in modo che possano sorgere nuove occasioni per la ricerca. Valorizzare la competenza, la concorrenza, il merito ad ogni livello. I partiti e le forze sociali ed economiche polesane devono assumersi oggi una responsabilità in più: è illusorio ritenere che questo cambiamento possa essere generato spontaneamente, “dal basso”.

Bisogna creare le condizioni affinché sia possibile produrre nuova classe dirigente a mezzo di classe dirigente, proprio partendo dal ruolo propulsivo del ceto politico e delle amministrazioni pubbliche, che dovranno essere in grado di aprirsi e collegarsi con le cosiddette minoranze attive, con i settori migliori e più competenti della società, rinunciando alle cooptazioni e agli “ingressi laterali”. Un salto di mentalità epocale, forse, ma necessario per evitare la puntuale riproposizione di quel luogo comune che vuole il Polesine eterna “terra di conquista” per interessi… in larga parte extra-polesani. Consiglierei, a tale proposito, la lettura del saggio del sociologo Carlo Carboni “La società cinica” (ed. Laterza), pubblicato un paio di anni fa, ma a mio giudizio tuttora molto utile per cercare di sviluppare alcuni dei temi qui sommariamente accennati, anche in relazione alla peculiare situazione della nostra realtà.

mercoledì 3 marzo 2010

Tutto scorre...



Un libro bellissimo, che consiglio vivamente. “Tutto scorre…” di Vasilij Grossman (ed. Adelphi), scrittore russo di origine ebraica (1905-1964) e autore del fondamentale “Vita e destino”.

“Tutto scorre…” è un grande romanzo, ma non è solo un romanzo: è anche una lucida, attualissima meditazione sulla condizione umana, una riflessione metastorica sul destino della Russia e della civiltà contemporanea, una analisi rigorosa del comunismo sovietico e del terrore staliniano, una singolare “psicologia” del totalitarismo, una disperata apologia della libertà e dell’uomo. Tutto questo racchiuso in poco più di duecento pagine dense, accorate, struggenti, veramente senza tempo.

giovedì 25 febbraio 2010

Diritti umani



Orlando Zapata Tamayo era un dissidente cubano, in carcere da diversi anni, è morto dopo 85 giorni di sciopero della fame.

"Orlando è stato lasciato morire dal governo di un paese dove far trapelare un pensiero anticonformista può condurre un uomo tra le sbarre" (Y. Sanchez)

martedì 23 febbraio 2010

Markette 2



No comment.

Markette



Un po' di autopromozione (ma solo un po'!). Sabato 20 febbraio ho presentato la mia raccolta di poesie "Lo specchio barbaro" (ed. Apogeo) in quel di Adria. Tante presenze, qualcuna pure inattesa. Un ringraziamento particolare va a Paolo, Caterina, Omar, Bruno, Rita, Marco e al prof. Antonio Catozzi, di cui riproduco l'introduzione contenuta nel libro.

"Il tema dell’uomo allo specchio, con il quale si apre questa raccolta di poesie, ricorda le prime pagine di Uno, nessuno e centomila (forse il più moderno tra i romanzi di Pirandello), dove il personaggio vede la propria immagine riflessa, e vedendola incomincia un’impegnativa ricognizione di sé che lo porterà gradualmente a scomporre, e infine a dissolvere, la propria identità, e l’idea stessa di uomo.

Nel tempo della crisi delle certezze, le domande radicali sono inevitabili. Chi siamo noi?
La casualità, nella situazione d’apertura inventata da Pirandello, risulta tuttavia determinante: Vitangelo Moscarda è come “trascinato” suo malgrado in un’avventura intellettuale ed esistenziale di disincanto, di distacco, di superamento (o distruzione) delle convenzioni sociali.

L’autore di queste poesie ci si presenta invece fin dall’inizio come un avventuriero consapevole; come un lucido analista di sé e del mondo che da subito - essendo immerso nella quotidianità, in quei “riti” che scandiscono le giornate facendole a volte parere assurde - vuole intraprendere un cammino di conoscenza: darsi una ragione plausibile, chiedersi che cosa c’è oltre le convenzioni, i gesti, le parvenze delle cose. Più ancora di Pirandello, è forse Montale che lo ispira.

“E ancora misuro / nelle rughe evasive / nelle rigide posture esistenziali / la tua lenta secessione da me (...)”: l’immagine riflessa nello specchio porta allo sdoppiamento dell’io, una parte del quale rimane ancorata (dentro) al passato, mentre l’altra (l’io di fuori, ridotto ad “altro”, o a pura parvenza) si trasforma, e trasformandosi suscita inevitabili domande sul tempo: su ciò che rimane, ad esempio, di “tremori impercettibili”, di “occasioni rapite” che tuttavia ritornano alla mente in folla, come un “esercito”.

La complessità dell’io è una componente fondamentale di questa poesia; le domande sul mondo, e sul senso di esso, che tutta l’animano in profondità, le danno un’ulteriore densità, uno spessore che si scioglie, a tratti, in musica.
I “riti”, nel quotidiano di Diego, sono presenti ovunque, persino nel sonno, persino nei “duelli” (“rituali” anch’essi) di un sorprendente don Chisciotte: grande archetipo introdotto qui come simbolo, forse, di una vita antieroica e tutta in salita. Un don Chisciotte che “cavalca verso l’occaso”, verso un sole che tramonta, e che non può sfuggire alla dialettica tra attesa e rassegnazione, tra rassegnazione e attesa.

Davanti allo specchio, a radersi a tarda notte (in un’altra poesia che richiama quella d’apertura), non c’è un uomo proiettato nel “trantran” del giorno dopo come in una fila di lucide certezze; c’è invece, sotto la luce irreale del neon, una “scarna figura pensosa / che non attende soluzioni / (…) né pigri e fortuiti atti / di saltuaria redenzione”.

“Redenzione”: un’idea che è affermata nel momento stesso in cui la si nega. Può darsi dunque che ci sia - per dirla con Montale - una maglia rotta nella rete dell’esistenza, un “anello che non tiene” nella catena degli eventi che in sé appaiono assurdi. Anche Diego ci parla - come faceva Montale - di poeti scoronati e privi d’alloro, invischiati in una quotidianità soffocante; anzi, più decisamente, di un “poeta mai laureato” il cui sguardo si proietta fuori da (o è puntato su?) una “vetrina spenta / di un vecchio negozio”, a cercare bagliori di verità; a chiedere “se è lecito sperare / in una sola pausa d’amore”.
La soluzione qui è musicale, nella consonanza che lega “amore” a “sperare” assecondando il ritmo piano del verso. Altrove, in modo anche più limpido: “Osservo il viso slavo / di Maria, mentre si compie / il mio tirocinio serale”.

Quel “viso slavo” che immaginiamo sorridere enigmaticamente, come Beatrice, o come la Gioconda, rimane impresso nel cuore. Porta, con l’insonnia, una “serena inquietudine”; riaffaccia la speranza di una redenzione promessa e mai raggiunta; e fa concludere Diego, musicalmente, in anagramma: “sono salvo”."

Antonio Catozzi

lunedì 22 febbraio 2010

Politica e scuola



Corsi e ricorsi. Ripubblico un mio articolo di un paio di anni fa, scritto in occasione delle ultime elezioni politiche. Non sembra essere cambiato molto da allora, in verità (dimissioni di Veltroni a parte):

"In una campagna elettorale che sembra essere dominata dai dibattiti sulle schede elettorali e sul futuro di Alitalia, rischia di non essere colto appieno un tema realmente decisivo come quello legato a scuola, università e ricerca. Un nodo essenziale anche per garantire al "sistema Italia" di poter tornare a crescere e di poter guadagnare in termini di competitività e di qualità dello sviluppo nei prossimi anni. Il Pd di Veltroni ha saputo mettere al centro del proprio programma scuola, università e ricerca, connotando le proprie proposte in maniera coerentemente riformista, all'insegna di parole d'ordine come autonomia, equità, eccellenza.

Una reale rottura rispetto al recente passato. In particolare, per il mondo della scuola, l'obiettivo è di riuscire a portare al diploma l'85% dei ragazzi, investendo sugli insegnanti e premiandone il merito e l'impegno. Un dato innegabile è che la società civile e politica hanno finito con l'attribuire sempre meno rilevanza al ruolo dei docenti e paiono sempre meno considerare la scuola, e chi all'interno della scuola opera, come variabili cruciali per la trasmissione del patrimonio culturale consolidato della nostra società, per lo sviluppo della cultura, della tecnologia, dell'economia. Se l'autonomia concepita e avviata durante questi ultimi anni ha un senso, essa dovrà invece necessariamente tradursi in una capacità di elaborazione culturale e strategica della scuola, che abbia veramente il coraggio di ridiscutere in profondità i principi su cui si regge il sistema e di interpretare il cambiamento in termini di apertura, avviando un dibattito ampio e articolato, allargato a tutto il paese.

Sempre più i docenti saranno spinti a diventare dei "facilitatori dell'apprendimento", saranno cioè chiamati a sperimentare metodi e strumenti inediti, una nuova pedagogia e un nuovo ruolo della scuola: è, questo, un patrimonio di conoscenze e innovazioni che spesso, poggiando sull'iniziativa di singoli insegnanti, risulta ancora disperso, frammentato, visibile solo a tratti, ma meritevole di grande attenzione, proprio perché un nuovo modo di fare scuola deve implicare l'uscita dal pionierismo di esperienze importanti ma isolate e implicare la disponibilità di nuovi strumenti, come quella di nuove collaborazioni, sinergie, competenze. L'autonomia è sicuramente una grande opportunità, ma rischia anche di rimanere una sorta di "rivoluzione" incompiuta.

Occorrerà premere l'acceleratore sul versante dell'innovazione, della sperimentazione, dell'autonomia didattica (cioè di una autonomia che non sia coniugata soltanto, ed essenzialmente, in termini gestionali e organizzativi), di un salto qualitativo del nostro sistema scolastico. La sfida che il Pd e la scuola del futuro hanno di fronte a sé è oggi improntata alla formazione e all'educazione "globale" delle persone. Faticosamente, nel dopoguerra, si è riusciti, pur con tutti i limiti di un processo quasi mai lineare e non privo di ostacoli e di conflittualità quasi endemiche, a realizzare una scuola di massa (l'innalzamento dell'obbligo scolastico sancito dalla Carta costituzionale, la Riforma della scuola media unificata, i Decreti delegati ecc.) in un paese come il nostro, dove ieri più di oggi convivevano più "Italie": è stata questa una conquista fondamentale, che ha consentito di lasciarci alle spalle un modello di scuola in cui l'appartenenza sociale e "di classe" determinava buona parte del percorso di ognuno, incanalando lungo binari prestabiliti il suo accesso (o meno) alla conoscenza.

Oggi, se la sfida "quantitativa" è stata, almeno in parte, vinta, il confronto sul futuro della scuola non può che riguardare la sua qualità, la capacità di sperimentare, di riscoprirsi diversa e plurale, attraverso la possibilità di offrire percorsi educativi e formativi che siano centrati sull'individuo, sulla persona e sui suoi bisogni."