
Pochi mesi fa, il presidente francese Sarkozy perde rovinosamente le elezioni regionali e decide il suo “giro di vite” sulla sicurezza. L’obiettivo politico dichiarato della sua azione è quello di recuperare elettori a destra, sottraendoli all’astensionismo e ai neo-fascisti di Le Pen. Che fare, allora? La migliore scorciatoia, per Sarkozy, è stata quella di puntare in maniera spregiudicata sul “rimpatrio assistito” dei rom: sgomberare i loro poveri campi e poi spedirli in quelli che si presume essere i loro paesi di origine. Un gruppo da sempre marginale ma ben individuabile, debole e privo di sostegni, oggetto di pregiudizi, voci e “leggende” di vario segno, che allignano un po’ dappertutto nell’opinione pubblica. Si tratta di cittadini comunitari? Con queste azioni si calpestano i diritti umani e le normative europee? Pazienza. Nella società mediatica, spesso, ciò che conta maggiormente è l’effetto annuncio e non la volontà effettiva di risolvere un problema. Berlusconi docet. E infatti il governo italiano, nei giorni scorsi, sceglie di accodarsi alla sua sorella latina, nonostante lo sconcerto dei partner europei.
Una causa, quella dei rom, che evidentemente non ha mai suscitato troppe simpatie né troppe adesioni. E questo è un dato storico. Il termine Porajmos o Porrajmos indica lo sterminio delle popolazioni rom che fu organizzato dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale, ma è tuttora difficile stabilire con precisione quante furono le vittime: i principali studi oscillano tra i 200.000 e il milione e mezzo di morti. Nell’Italia fascista, rom e sinti furono imprigionati in vari campi di concentramento, da Bolzano fino alle isole Tremiti. Rom italiani e di altre nazionalità.
Nemmeno oggi lo spirito dei tempi sembra essere tanto più favorevole. Cerchiamo qualche esempio nella cronaca recente, anche in quella di casa nostra. L’International Labour Organization (ILO), l'agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite, nel suo rapporto sull’applicazione delle “Convenzioni e Raccomandazioni internazionali” del del 2009, ha condannato l’Italia per il “clima di intolleranza esistente”, creato dai leader politici rei di usare una “retorica aggressiva e discriminatoria nell'associare i rom alla criminalità, creando così un sentimento di ostilità e antagonismo nell'opinione pubblica”.
Altro esempio. La Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI), ha invitato l’Italia ad abbandonare il falso presupposto secondo cui i membri di tali gruppi siano nomadi: un presupposto con cui viene messa in atto “una politica di segregazione dal resto della società”, attraverso la creazione di “campi nomadi”, basati sul principio della presenza temporanea dei rom e privi dei servizi più elementari.
Il diritto alla sicurezza è qualcosa di essenziale per una democrazia. Altra cosa, tuttavia, è coltivare in modo sistematico il pregiudizio, fomentare sentimenti di ostilità o pensare di praticare l'esclusione di determinati gruppi, magari sulla base di argomentazioni apparentemente “democratiche” o paraumanitarie.
Ma è negando qualche casa popolare ai rom (vedi Milano) che saremo più sicuri?
La teoria politica ci dice altro di interessante. I sistemi democratici si sono fondati e si fondano anche mediante esclusioni, esclusioni che tuttavia ritornano ad "ossessionare" i sistemi che si sono edificati sulla loro assenza. Questa ossessione può diventare e spesso diventa politicamente decisiva quando cominciamo a fare i conti con il "ritorno dell'escluso", cioè quando l'escluso costringe ad una complessiva riarticolazione delle premesse della stessa democrazia. Questo vale per gli emarginati dal mercato, per le differenze di genere come per i rom: ogni ordinamento democratico sembra vivere di uno scarto tra una aspirazione universalista (incarnata nelle istituzioni democratiche e che tende ad annullare le differenze) e una congenita eccedenza, un di più, una esclusione che un filosofo ha definito la "parte dei senza parte".
Insomma, la crescente ossessione securitaria di larghi strati della nostra società, amplificata a dismisura dai mezzi di comunicazione e da una politica dissennata, mette in discussione i fondamenti del nostro vivere civile e chiama in causa l'essenza della nostra democrazia. L'unico modo per uscirne da sinistra è tornare a parlare il linguaggio dei diritti, senza ambiguità e senza rincorrere le facili posizioni di chi è alla ricerca del “capro espiatorio”.