venerdì 10 settembre 2010

El Diego



















"Los argentinos son italianos que hablan español y se creen franceses".

Allo scrittore Octavio Paz viene attribuita la seguente frase: "Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e si credono francesi".

Si calcola che metà della popolazione argentina sia di origine italiana.
Da questa evidenza storica ricaviamo un'altra conseguenza.

Maradona è un italiano che parla spagnolo e si crede... Dio (o si crede Fidel Castro?).

giovedì 9 settembre 2010

Segni dei tempi








Berlino.
Le statue del celeberrimo duo Marx-Engels vengono "sloggiate" per fare spazio alla nuova linea della metro.

mercoledì 8 settembre 2010

Controcorrente







Un interessante articolo di Nando Dalla Chiesa, uscito su "Il Fatto Quotidiano" del 18 agosto scorso.
Difficile non citarlo per esteso.

"Sarò onesto: non mi mancherà. Guai se la pietà per la morte offuscasse la memoria e il giudizio che la memoria (viva, ben viva) porta con sé. Non esisterebbe più la storia. E dunque, parlando di Francesco Cossiga, rifiuterò il metodo che gli fu alla fine più congeniale: quello di ricordare i morti diffamandoli, dicendo di loro cose dalle quali non potevano difendersi. Fidando nel fatto che i familiari una cosa sapevano con certezza: che se avessero osato replicargli lui avrebbe inventato altri episodi sconvenienti ancora e poi li avrebbe dileggiati, forte della sua passata carica istituzionale e della compiaciuta docilità con cui la stampa ospitava ogni sua calunnia. Fece così con Moro, con Berlinguer, con il generale dalla Chiesa. Fece così con altri. Era nato d’altronde un autentico genere giornalistico, l’intervista a Cossiga, che consisteva nel mettergli davanti un microfono o un taccuino e ospitare senza fiatare le sue allusioni, le sue bugie.

Da trasformare in rivelazioni storiche, provenienti dal loro unico e inesauribile depositario. Mi atterrò dunque ai fatti che tutti possono pubblicamente controllare. Perché ai tempi fui tra parlamentari che ne chiesero l’impeachement, anzitutto. Perché io il sistema politico di allora, quello che chiamavo il regime della corruzione, lo volevo cambiare per davvero. Ma per renderlo conforme alla Costituzione e a un decente senso delle istituzioni. Perciò mi scandalizzavo nel vedere un capo dello Stato giocare soddisfatto al picconatore, conducendo una massiccia attività di diseducazione civica. Quando poi Cossiga si mise alla testa della lotta contro i giudici, minacciando, lui presidente del Csm, di farlo presidiare militarmente dai carabinieri avvalendosi delle sue prerogative di Capo supremo delle Forze armate, pensai che la misura era colma. Che l’uomo esprimeva una cultura golpista e che era nella posizione istituzionale per tradurla in realtà politica.

Le chiavi di casa e i giudici ragazzini
Perché titolai la storia di Rosario Livatino “Il giudice ragazzino”. Esattamente in polemica con lui, che delegittimava i giovani magistrati che in Sicilia sfidavano la mafia. A questi giudici ragazzini non affiderei neanche le chiavi di una casa di campagna, aveva detto. E Livatino, morto a trentotto anni, aveva compiuto le sue prime coraggiosissime inchieste quando di anni ne aveva ventotto. Avevo imparato dai racconti di mio padre che quando si ha a che fare con la mafia chi ha un grado superiore protegge chi sta sul posto, ci passeggia insieme in piazza perché tutti capiscano. Che non è solo, che ha dietro lo Stato. Lui, capo dei magistrati, aveva invece umiliato sprezzantemente proprio i giudici più esposti negli anni della mattanza. Perchémi astenni, unico nel centrosinistra, sulla fiducia al primo governo D’Alema. Non per oltranzismo ulivista, ma perché non ero certo entrato in parlamento per fare un governo con Cossiga e con ciò che lui rappresentava nella vita del paese e nella mia vita personale. Il testo dell’intervento pronunciato in quell’occasione è agli atti. Allora mi valse richieste di interruzione da sinistra e qualche stretta di mano (tra cui quella di Gianfranco Fini). Perché l’ho spesso citato – ma non quanto avrei voluto – nei libri, negli articoli o negli interventi che avevano per oggetto la vicenda di mio padre.


Veleni attorno a un sacrificio
Perché ho sempre trovato maramaldo quello spargergli veleno intorno dopo il suo sacrificio. Non ho mai capito se fosse il seguito dell’isolamento che il sistema aveva inflitto al prefetto dopo l’ annuncio che sarebbe andato in Sicilia per combattere la mafia per davvero. Ricordo però con certezza che Cossiga iniziò a colpirne l’immagine in vista del maxiprocesso presentandolo con naturalezza come iscritto alla P2. I giudici che avevano indagato a Castiglion Fibocchi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, mi garantirono che loro nella lista quel nome non l’avevano trovato. Lui insisté contro ogni atto giudiziario e parlamentare (della storia ho reso i particolari su “In nome del popolo italiano”, biografia postuma di mio padre, nel 1997). Finché anni dopo ancora raccontò la sua pazzesca verità: per proteggere mio padre Colombo e Turone, giudici felloni, avevano strappato un foglio dall’elenco. Non smise mai di raccontarlo. Così come, per sminuire il lavoro di Giancarlo Caselli e di mio padre contro il terrorismo, sostenne un giorno, poco dopo l’avviso di garanzia per Andreotti a Palermo, che il vero merito del pentimento di Patrizio Peci fosse di un maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo. Costui venne da lì lanciato pubblicamente in orbita giornalistica e televisiva per seminare nuove e inverosimili calunnie su mio padre, alcune delle quali si sono ormai purtroppo depositate negli atti giudiziari (tra i quali rimane però anche, a Palermo, il testo della controaudizione da me richiesta).

Altro verrebbe da dire, dalla memoria di Giorgiana Masi uccisa in quella famigerata manifestazione del ‘77 zeppa di infiltrati in armi, al contrasto avuto con lui in Senato, dai banchi della Margherita, sui fatti della Diaz, che lui, sedicente garantista, avallò senza scrupoli. Come e più che con Giovanni Leone, che non ebbe comunque le sue colpe, avremo probabilmente un mieloso coro di elogi. Poiché l’uomo ha incarnato alla perfezione la qualità media della nostra politica questo è assolutamente naturale. Certo non si porterà nell’aldilà solo i segreti veri di questa Repubblica. Si porterà anche i segreti da lui inventati, le trame inesistenti fatte intravedere, le panzane spacciate per misteri. Riposi in pace, e che nessuno faccia a lui i torti che lui fece alle vittime della Repubblica".

venerdì 3 settembre 2010

Qualche proposta per il Pd






ABBOZZO DI UN MANIFESTO RIFORMISTA PER IL PD POLESANO

Il risultato delle ultime elezioni regionali consegna un quadro politico negativo al centrosinistra e al Partito democratico, a livello nazionale come in Polesine: al calo di consensi quasi generalizzato si unisce un diffuso senso di preoccupazione tra iscritti e militanti per le scadenze future e per le prospettive del partito nel suo complesso.

Come provare ad uscire da questa situazione? Ripartendo dalla politica. Oggi il Pd polesano è obbligato dalla propria “ragione sociale” a definire una chiara linea di alternativa: una linea di alternativa che, insieme ad una forte proposta politica, diversa dalle promesse e dagli slogan elettorali di Pdl e Lega e in grado di interloquire concretamente con la società civile, sappia tuttavia anche tracciare una cesura rispetto ad alcune scelte del recente passato e ridare speranza alla gente.

Per fare questo è davvero necessario un "cambio di passo", ma questo cambio di passo evocato da molti può avvenire soltanto sulla base di una netta opzione riformista, una opzione culturale e politica che il Pd deve fare propria senza ambiguità e senza incertezze e che implica, in qualche modo, una seria "revisione" di quanto avvenuto nei primi anni di vita del partito.

Scelta riformista come metodo e come valore, ma anche come unica opportunità per cercare di definire una credibile identità del progetto del Pd, una prospettiva unificante, oltre quella che è stata troppo spesso percepita, anche dal nostro elettorato, come una semplice giustapposizione di vecchie appartenenze e scuole politiche.

Di seguito elenchiamo dieci punti per la costruzione di questa proposta:

1. Cambiare e rinnovare la classe dirigente del Pd: una nuova generazione protagonista, nelle amministrazioni e nel partito, per radicare il Pd nel territorio e restituire la sovranità al singolo iscritto. Promuovere primarie e ampie consultazioni per le cariche elettive. Il Pd deve tornare ad essere un partito aperto, plurale e contendibile.

2. Meno presenza dei partiti, più trasparenza nelle società pubbliche: liberalizzare i servizi per liberare le energie della politica. Creare una anagrafe delle competenze e mettere il merito e la capacità al primo posto. Mettere al primo posto il cittadino-utente.

3. Lavorare per costruire una alternativa reale alla Lega e alle destre, ma senza ricadere nelle nostalgie e nelle trappole del “c’era una volta”. Il Pd deve essere un moderno partito di programma, che guarda in avanti, si attrezza per leggere la “società complessa” e presenta le proprie proposte a tutti i cittadini, sui temi che interessano ai cittadini. La battaglia si svolge anche e soprattutto sul terreno culturale: occorrono studio e riflessione, coinvolgimento e discussione. La partecipazione è la prima alternativa al modello di personalizzazione promosso dal Pdl, o alla retorica dei "duri e puri" portata avanti dai leghisti nostrani. Serve un partito orizzontale e inclusivo.

4. Riaffermare con decisione la laicità della politica: costruire un partito plurale e pluralista, un partito di centrosinistra in cui la differenza e le differenze siano un valore e non un ostacolo. Per questo il Pd non può essere un fragile compromesso tra cattolici e laici, ma deve saper affermare la laicità come valore positivo, come metodo di ricerca e di azione.

5. Riconoscere l’importanza del mercato e della concorrenza, contro ogni velleità dirigista, centralista, corporativista. Promuovere una cultura dell’efficienza e del merito. Valorizzare le individualità. Creare le condizioni per rafforzare il “capitale sociale” e il “capitale umano” del nostro territorio: scuola, formazione e università hanno un ruolo centrale. E occorre rilanciare il tema della formazione anche dentro il partito.

6. Riformismo non è un concetto astratto, né un ideale irraggiungibile: riformismo significa dare risposte concrete su problemi che si “chiamano” lavoro, diritti, ambiente, governo del territorio ecc. Significa adoperare le categorie e gli strumenti più adeguati ai problemi, significa saper parlare la lingua del proprio tempo.

7. Chiarezza e coerenza nelle alleanze politiche: ciò significa respingere l’idea di un partito che costruisca la propria linea politica in ambito locale guardando alle piccole convenienze o accodandosi ad altre forze politiche per conquistare spazi di mera sopravvivenza. L’obiettivo perseguito nelle amministrazioni locali deve essere quello di allargare l’area del consenso per il centrosinistra, ma in un quadro di chiarezza dei rapporti e di compatibilità amministrativa e politica.

8. Recuperare la vocazione maggioritaria del Pd: ciò significa immaginare un partito che assuma un ruolo centrale nell’arena politica, con la propria autonoma iniziativa, e che non deleghi a nessun altro soggetto politico la rappresentanza di interessi e di “pezzi” di società.

9. Un partito con una strategia. Quale modello di sviluppo per il Polesine e per il Veneto? Quali alleanze stabilire con i settori più dinamici e produttivi della società polesana? Oggi è necessario aprire un vero e serio confronto programmatico, che disegni il profilo di forza autonoma e di governo del Pd polesano. Appare impensabile uscire dalla crisi e tornare a crescere, specialmente per un territorio come quello polesano, troppo spesso schiacciato dalle priorità e dagli interessi di aree più forti, se non viene affermata la centralità del “capitale umano”. Ciò significa credere che l’investimento più vantaggioso che si possa fare è quello che riguarda istruzione, formazione, conoscenza. Fare in modo che possano sorgere nuove occasioni per la ricerca. Valorizzare la competenza, la concorrenza, il merito ad ogni livello. I partiti e le forze sociali ed economiche polesane devono assumersi oggi una responsabilità in più: è illusorio ritenere che questo cambiamento possa essere generato spontaneamente, “dal basso”. Bisogna creare le condizioni affinché sia possibile produrre nuova classe dirigente a mezzo di classe dirigente, proprio partendo dal ruolo propulsivo del ceto politico e delle amministrazioni pubbliche, che dovranno essere in grado di aprirsi e collegarsi con le cosiddette minoranze attive, con i settori migliori e più competenti della società, rinunciando alle cooptazioni e agli “ingressi laterali”. Un salto di mentalità epocale, forse, ma necessario per evitare la puntuale riproposizione di quel luogo comune che vuole il Polesine eterna “terra di conquista” per interessi… in larga parte extra-polesani.

10. Guardare al centro: significa guardare a quello che si muove nella società, significa provare ad intercettare le categorie e i settori più dinamici della nostra società, non limitarsi alle schermaglie con l'Udc o con altri partiti. Il Pd vuole provare ad assumere un ruolo centrale nella politica e nella società? Vuole essere un partito che governa e promuove il cambiamento, o si limita a subirlo?