giovedì 25 febbraio 2010

Diritti umani



Orlando Zapata Tamayo era un dissidente cubano, in carcere da diversi anni, è morto dopo 85 giorni di sciopero della fame.

"Orlando è stato lasciato morire dal governo di un paese dove far trapelare un pensiero anticonformista può condurre un uomo tra le sbarre" (Y. Sanchez)

martedì 23 febbraio 2010

Markette 2



No comment.

Markette



Un po' di autopromozione (ma solo un po'!). Sabato 20 febbraio ho presentato la mia raccolta di poesie "Lo specchio barbaro" (ed. Apogeo) in quel di Adria. Tante presenze, qualcuna pure inattesa. Un ringraziamento particolare va a Paolo, Caterina, Omar, Bruno, Rita, Marco e al prof. Antonio Catozzi, di cui riproduco l'introduzione contenuta nel libro.

"Il tema dell’uomo allo specchio, con il quale si apre questa raccolta di poesie, ricorda le prime pagine di Uno, nessuno e centomila (forse il più moderno tra i romanzi di Pirandello), dove il personaggio vede la propria immagine riflessa, e vedendola incomincia un’impegnativa ricognizione di sé che lo porterà gradualmente a scomporre, e infine a dissolvere, la propria identità, e l’idea stessa di uomo.

Nel tempo della crisi delle certezze, le domande radicali sono inevitabili. Chi siamo noi?
La casualità, nella situazione d’apertura inventata da Pirandello, risulta tuttavia determinante: Vitangelo Moscarda è come “trascinato” suo malgrado in un’avventura intellettuale ed esistenziale di disincanto, di distacco, di superamento (o distruzione) delle convenzioni sociali.

L’autore di queste poesie ci si presenta invece fin dall’inizio come un avventuriero consapevole; come un lucido analista di sé e del mondo che da subito - essendo immerso nella quotidianità, in quei “riti” che scandiscono le giornate facendole a volte parere assurde - vuole intraprendere un cammino di conoscenza: darsi una ragione plausibile, chiedersi che cosa c’è oltre le convenzioni, i gesti, le parvenze delle cose. Più ancora di Pirandello, è forse Montale che lo ispira.

“E ancora misuro / nelle rughe evasive / nelle rigide posture esistenziali / la tua lenta secessione da me (...)”: l’immagine riflessa nello specchio porta allo sdoppiamento dell’io, una parte del quale rimane ancorata (dentro) al passato, mentre l’altra (l’io di fuori, ridotto ad “altro”, o a pura parvenza) si trasforma, e trasformandosi suscita inevitabili domande sul tempo: su ciò che rimane, ad esempio, di “tremori impercettibili”, di “occasioni rapite” che tuttavia ritornano alla mente in folla, come un “esercito”.

La complessità dell’io è una componente fondamentale di questa poesia; le domande sul mondo, e sul senso di esso, che tutta l’animano in profondità, le danno un’ulteriore densità, uno spessore che si scioglie, a tratti, in musica.
I “riti”, nel quotidiano di Diego, sono presenti ovunque, persino nel sonno, persino nei “duelli” (“rituali” anch’essi) di un sorprendente don Chisciotte: grande archetipo introdotto qui come simbolo, forse, di una vita antieroica e tutta in salita. Un don Chisciotte che “cavalca verso l’occaso”, verso un sole che tramonta, e che non può sfuggire alla dialettica tra attesa e rassegnazione, tra rassegnazione e attesa.

Davanti allo specchio, a radersi a tarda notte (in un’altra poesia che richiama quella d’apertura), non c’è un uomo proiettato nel “trantran” del giorno dopo come in una fila di lucide certezze; c’è invece, sotto la luce irreale del neon, una “scarna figura pensosa / che non attende soluzioni / (…) né pigri e fortuiti atti / di saltuaria redenzione”.

“Redenzione”: un’idea che è affermata nel momento stesso in cui la si nega. Può darsi dunque che ci sia - per dirla con Montale - una maglia rotta nella rete dell’esistenza, un “anello che non tiene” nella catena degli eventi che in sé appaiono assurdi. Anche Diego ci parla - come faceva Montale - di poeti scoronati e privi d’alloro, invischiati in una quotidianità soffocante; anzi, più decisamente, di un “poeta mai laureato” il cui sguardo si proietta fuori da (o è puntato su?) una “vetrina spenta / di un vecchio negozio”, a cercare bagliori di verità; a chiedere “se è lecito sperare / in una sola pausa d’amore”.
La soluzione qui è musicale, nella consonanza che lega “amore” a “sperare” assecondando il ritmo piano del verso. Altrove, in modo anche più limpido: “Osservo il viso slavo / di Maria, mentre si compie / il mio tirocinio serale”.

Quel “viso slavo” che immaginiamo sorridere enigmaticamente, come Beatrice, o come la Gioconda, rimane impresso nel cuore. Porta, con l’insonnia, una “serena inquietudine”; riaffaccia la speranza di una redenzione promessa e mai raggiunta; e fa concludere Diego, musicalmente, in anagramma: “sono salvo”."

Antonio Catozzi

lunedì 22 febbraio 2010

Politica e scuola



Corsi e ricorsi. Ripubblico un mio articolo di un paio di anni fa, scritto in occasione delle ultime elezioni politiche. Non sembra essere cambiato molto da allora, in verità (dimissioni di Veltroni a parte):

"In una campagna elettorale che sembra essere dominata dai dibattiti sulle schede elettorali e sul futuro di Alitalia, rischia di non essere colto appieno un tema realmente decisivo come quello legato a scuola, università e ricerca. Un nodo essenziale anche per garantire al "sistema Italia" di poter tornare a crescere e di poter guadagnare in termini di competitività e di qualità dello sviluppo nei prossimi anni. Il Pd di Veltroni ha saputo mettere al centro del proprio programma scuola, università e ricerca, connotando le proprie proposte in maniera coerentemente riformista, all'insegna di parole d'ordine come autonomia, equità, eccellenza.

Una reale rottura rispetto al recente passato. In particolare, per il mondo della scuola, l'obiettivo è di riuscire a portare al diploma l'85% dei ragazzi, investendo sugli insegnanti e premiandone il merito e l'impegno. Un dato innegabile è che la società civile e politica hanno finito con l'attribuire sempre meno rilevanza al ruolo dei docenti e paiono sempre meno considerare la scuola, e chi all'interno della scuola opera, come variabili cruciali per la trasmissione del patrimonio culturale consolidato della nostra società, per lo sviluppo della cultura, della tecnologia, dell'economia. Se l'autonomia concepita e avviata durante questi ultimi anni ha un senso, essa dovrà invece necessariamente tradursi in una capacità di elaborazione culturale e strategica della scuola, che abbia veramente il coraggio di ridiscutere in profondità i principi su cui si regge il sistema e di interpretare il cambiamento in termini di apertura, avviando un dibattito ampio e articolato, allargato a tutto il paese.

Sempre più i docenti saranno spinti a diventare dei "facilitatori dell'apprendimento", saranno cioè chiamati a sperimentare metodi e strumenti inediti, una nuova pedagogia e un nuovo ruolo della scuola: è, questo, un patrimonio di conoscenze e innovazioni che spesso, poggiando sull'iniziativa di singoli insegnanti, risulta ancora disperso, frammentato, visibile solo a tratti, ma meritevole di grande attenzione, proprio perché un nuovo modo di fare scuola deve implicare l'uscita dal pionierismo di esperienze importanti ma isolate e implicare la disponibilità di nuovi strumenti, come quella di nuove collaborazioni, sinergie, competenze. L'autonomia è sicuramente una grande opportunità, ma rischia anche di rimanere una sorta di "rivoluzione" incompiuta.

Occorrerà premere l'acceleratore sul versante dell'innovazione, della sperimentazione, dell'autonomia didattica (cioè di una autonomia che non sia coniugata soltanto, ed essenzialmente, in termini gestionali e organizzativi), di un salto qualitativo del nostro sistema scolastico. La sfida che il Pd e la scuola del futuro hanno di fronte a sé è oggi improntata alla formazione e all'educazione "globale" delle persone. Faticosamente, nel dopoguerra, si è riusciti, pur con tutti i limiti di un processo quasi mai lineare e non privo di ostacoli e di conflittualità quasi endemiche, a realizzare una scuola di massa (l'innalzamento dell'obbligo scolastico sancito dalla Carta costituzionale, la Riforma della scuola media unificata, i Decreti delegati ecc.) in un paese come il nostro, dove ieri più di oggi convivevano più "Italie": è stata questa una conquista fondamentale, che ha consentito di lasciarci alle spalle un modello di scuola in cui l'appartenenza sociale e "di classe" determinava buona parte del percorso di ognuno, incanalando lungo binari prestabiliti il suo accesso (o meno) alla conoscenza.

Oggi, se la sfida "quantitativa" è stata, almeno in parte, vinta, il confronto sul futuro della scuola non può che riguardare la sua qualità, la capacità di sperimentare, di riscoprirsi diversa e plurale, attraverso la possibilità di offrire percorsi educativi e formativi che siano centrati sull'individuo, sulla persona e sui suoi bisogni."