
Il decennale della morte di Craxi dovrebbe fornire l'occasione per tornare a riflettere su questa esperienza politica “sine ira ac studio”, senza dover ricorrere necessariamente ad un concetto di per sé ambiguo come quello di “riabilitazione”, né ricadere in letture semplicistiche e unilaterali.
Dovrebbe, dico, tenendo conto anche della difficoltà che il Pd e il campo riformista incontrano nel tentativo di ridefinire la propria identità. Il crollo del muro di Berlino, oltre a dissolvere quel che rimaneva del comunismo sovietico, ha messo in crisi il modello socialdemocratico e l'idea stessa di un riformismo socialdemocratico: una crisi profonda, che si è acuita con il passare degli anni e che si è malamente cercato di occultare dietro il preteso pragmatismo dei tanti governi a guida laburista, socialdemocratica o genericamente progressista presenti in Europa a partire dagli anni Novanta. Si è governato, anche a lungo, evitando che le parole “riformismo” e “socialismo” riassumessero un qualche significato riconoscibile e traducibile nella realtà concreta, oltre che nella prospettiva a medio-lungo termine di queste famiglie politiche. Oggi qualsiasi vago impulso modernizzatore ed efficientista sembra potersi ammantare di “riformismo”, da destra a sinistra, senza che ci si interroghi più sull'orizzonte ultimo e sulle finalità complessive che dovrebbero orientare questi stessi impulsi.
La questione di fondo è politica e, insieme, culturale. In questa ottica, il caso italiano può acquistare un rilievo emblematico, cui si sommano naturalmente fattori nazionali specifici (Tangentopoli, la fine dei vecchi partiti, l'avvento di Berlusconi e della Lega ecc.). In Italia, dal 1989 in avanti, il campo della “sinistra” – pur non riuscendo ad ampliare significativamente i propri consensi nella società e nel Paese, anzi, spesso regredendo dalle proprie posizioni – è risultato abbastanza esteso da poter comprendere al proprio interno i tentativi di rifondare il comunismo e gli approdi liberal-democratici, le nostalgie socialiste e le velleità uliviste, le pulsioni libertarie e quelle giacobine. L’ipersensibilità dimostrata nei confronti di Berlusconi, del personaggio Berlusconi oltre che della sua politica, rimane uno dei sintomi più eloquenti di questa fragilità strutturale, anche dopo la nascita del Pd.
La prospettiva riformista del nuovo partito sembra così essersi fondata su una doppia e speculare rimozione: quella di Craxi e quella di Berlinguer. Icone di un passato illustre o figure scomode, si tratta di esperienze che sono state tenute a distanza, non rielaborate seriamente né colte nella loro essenziale verità da chi dovrebbe osare coglierne la lezione. Tutt'al più le si è sbrigativamente definite come le “due facce di una stessa sconfitta”: una liquidazione frettolosa e quindi sospetta.
L'eredità politica di Berlinguer (moralità, austerità, la politica dei “pensieri lunghi” ecc.) non può rispecchiarsi nel minoritarismo e nel moralismo di certi settori del centrosinistra attuale, che individuano nella purezza della retorica anti-berlusconiana il parametro unico di ogni plausibile alternativa al governo.
Analogamente, l'eredità di Craxi (riformismo laico, spinta modernizzatrice, “decisionismo” ecc.) non può essere regalata al centrodestra di Brunetta e Sacconi, né essere interamente assorbita dalle vicende giudiziarie. Il Craxi di Sigonella, applaudito a suo tempo dal Pci, o quello del referendum sulla scala mobile, possono insegnarci ancora oggi che una azione politica coerentemente riformista non vive di astratte pianificazioni, né di visioni escatologiche della realtà o di sterili enunciazioni moralistiche, ma si basa su scelte forti, sul riconoscimento di passaggi simbolici e talvolta anche sull'abbattimento di tabù appartenenti alla propria cultura. Richiede pensiero, ma anche coraggio.
Il paradosso di entrambe queste rimozioni è che, all'interno di un vorticoso “rinnovamento” di nomi, sigle, programmi, leader, come quello conosciuto dalla sinistra negli ultimi anni, e in assenza di un serio ripensamento del passato recente, prevalgano le spinte più conformiste e conservative. La riflessione oggi s'impone anche per i riformisti polesani.
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